Lettera a "LA STAMPA" pubblicata il 14/8/2007
Il mio Centro moderato e riformista
di PIER FERDINANDO CASINI
Caro Direttore,
i dibattiti sull’ipotesi di ricostruzione di un partito «grande e di centro» finiscono, il più delle volte, per alimentare i sogni di mezza estate o goffe cacce alle streghe. Non è stato così per l’analisi lucida e dura del professor Ricolfi, che ha rivolto ai centristi e all’Udc critiche non del tutto infondate. Per una volta, vorrei evitare quella difesa d’ufficio inevitabile per chi ha ruoli di responsabilità in un partito. Ammettere i limiti della propria formazione politica può essere la premessa migliore per andare avanti nella direzione giusta. Ricolfi spiega che «il postulato in base al quale più si è moderati, più si è riformisti» è falso. Per dimostrarlo cita una serie di esempi in cui l’Udc non ha dimostrato una grande vocazione liberale. Ha ragione. Gli episodi in cui la tentazione di poter incrementare i consensi seguendo la scorciatoia dell’aumento della spesa pubblica non sono pochi e non sono irrilevanti.
Il Paese ha bisogno d’altro. Ha necessità di riforme profonde, strutturali. Non serve, secondo Ricolfi, un partito dei moderati, ma il partito della responsabilità e del merito. Concordo e ammetto che oggi quel partito in Italia non c’è ancora. Un leader politico, però, non può accontentarsi di fotografare l’esistente e di limitarsi all’autocritica. Personalmente, voglio impegnare me stesso e il partito di cui faccio parte, l’Udc, a essere parte attiva di un contenitore radicalmente riformatore.
Quando, dopo la fine della Dc, abbiamo fondato il Ccd l’abbiamo fatto con un’idea molto chiara: l’esaurimento di quel grande partito popolare di massa consisteva nella deriva che aveva preso negli ultimi dieci-quindici anni, caratterizzati da una gigantesca trasformazione dello stato sociale in un grande stato assistenziale che distribuiva benefici a tutti, anche a chi non ne aveva bisogno, a scapito della necessaria selezione dei bisogni e anche a scapito del merito e del sacrificio che, in ogni democrazia liberale, debbono essere le vere discriminanti selettive. Per questo, sin dal ‘94, abbiamo manifestato la nostra contrarietà all’idea di rifare un’altra Dc, non solo per l’esaurirsi delle condizioni storiche del tempo (fine dell’unità politica dei cattolici, caduta del muro di Berlino, simbolo della guerra fredda), ma anche e soprattutto per questa discontinuità che i tempi richiedono. Oggi il Paese chiede altro, qualcosa di radicalmente nuovo che non sia figlio della nostalgia. Richiede una nuova mentalità politica e forse una nuova classe dirigente, ma da qualche parte bisogna pur partire. Mi limito a segnalare che alcuni mesi fa si è tenuto il congresso dell’Udc. Oltre a confermare la fiducia al nostro segretario, i delegati si sono divisi - con tanto di votazioni (assai poco frequenti negli altri partiti) - su temi importanti e per certi versi «nuovi» come pensioni e ambiente. È emerso il profilo di un partito che scommette, magari con un po’ di fatica, sull’innovazione, sul cambiamento, sulla riforma di un sistema previdenziale che guardi ai giovani ed eviti possibili scontri intergenerazionali, sul nucleare troppo frettolosamente archiviato. In questo anno di opposizione abbiamo tentato di essere conseguenti. Abbiamo trattato il tema delle liberalizzazioni, delle pensioni stesse, dei servizi pubblici locali con serietà e con quella «radicalità» che giustamente l’editorialista della Stampa reclama.
Essere moderati non significa essere banderuole esposte ai quattro venti. Avere radicamento territoriale non significa essere clientelari. Essere parte della tradizione cattolica del nostro Paese non è motivo di disonore. Coniugare questi caratteri con le battaglie del libero mercato, di uno Stato più leggero, ma anche più equo, non è facilissimo. Ma non è impossibile. In questi anni abbiamo fatto tanta strada: commesso anche errori, ma da quelli abbiamo saputo trarne le giuste lezioni. La strada da percorrere è ancora tanta. E le difficoltà sono proprio quelle evidenziate da Ricolfi. Chi ha a cuore la sorte del proprio Paese non può sottrarsi a questa sfida. Per l’Udc la battaglia dei prossimi mesi non sarà quella di rifondare un improbabile partito che contrapponga la definizione «centro» alle prevalenti «destra» o «sinistra», poiché siamo consci che ormai questi schemi sono logori e vecchi, figli di stagioni ideologiche che giustamente nella vicina Francia il presidente Sarkozy ha archiviato rompendo tabù e incomunicabilità, facendo un governo della modernizzazione contro tutti i conservatorismi. La sfida è questa: essere, insieme, moderati e radicali si può.
Il mio Centro moderato e riformista
di PIER FERDINANDO CASINI
Caro Direttore,
i dibattiti sull’ipotesi di ricostruzione di un partito «grande e di centro» finiscono, il più delle volte, per alimentare i sogni di mezza estate o goffe cacce alle streghe. Non è stato così per l’analisi lucida e dura del professor Ricolfi, che ha rivolto ai centristi e all’Udc critiche non del tutto infondate. Per una volta, vorrei evitare quella difesa d’ufficio inevitabile per chi ha ruoli di responsabilità in un partito. Ammettere i limiti della propria formazione politica può essere la premessa migliore per andare avanti nella direzione giusta. Ricolfi spiega che «il postulato in base al quale più si è moderati, più si è riformisti» è falso. Per dimostrarlo cita una serie di esempi in cui l’Udc non ha dimostrato una grande vocazione liberale. Ha ragione. Gli episodi in cui la tentazione di poter incrementare i consensi seguendo la scorciatoia dell’aumento della spesa pubblica non sono pochi e non sono irrilevanti.
Il Paese ha bisogno d’altro. Ha necessità di riforme profonde, strutturali. Non serve, secondo Ricolfi, un partito dei moderati, ma il partito della responsabilità e del merito. Concordo e ammetto che oggi quel partito in Italia non c’è ancora. Un leader politico, però, non può accontentarsi di fotografare l’esistente e di limitarsi all’autocritica. Personalmente, voglio impegnare me stesso e il partito di cui faccio parte, l’Udc, a essere parte attiva di un contenitore radicalmente riformatore.
Quando, dopo la fine della Dc, abbiamo fondato il Ccd l’abbiamo fatto con un’idea molto chiara: l’esaurimento di quel grande partito popolare di massa consisteva nella deriva che aveva preso negli ultimi dieci-quindici anni, caratterizzati da una gigantesca trasformazione dello stato sociale in un grande stato assistenziale che distribuiva benefici a tutti, anche a chi non ne aveva bisogno, a scapito della necessaria selezione dei bisogni e anche a scapito del merito e del sacrificio che, in ogni democrazia liberale, debbono essere le vere discriminanti selettive. Per questo, sin dal ‘94, abbiamo manifestato la nostra contrarietà all’idea di rifare un’altra Dc, non solo per l’esaurirsi delle condizioni storiche del tempo (fine dell’unità politica dei cattolici, caduta del muro di Berlino, simbolo della guerra fredda), ma anche e soprattutto per questa discontinuità che i tempi richiedono. Oggi il Paese chiede altro, qualcosa di radicalmente nuovo che non sia figlio della nostalgia. Richiede una nuova mentalità politica e forse una nuova classe dirigente, ma da qualche parte bisogna pur partire. Mi limito a segnalare che alcuni mesi fa si è tenuto il congresso dell’Udc. Oltre a confermare la fiducia al nostro segretario, i delegati si sono divisi - con tanto di votazioni (assai poco frequenti negli altri partiti) - su temi importanti e per certi versi «nuovi» come pensioni e ambiente. È emerso il profilo di un partito che scommette, magari con un po’ di fatica, sull’innovazione, sul cambiamento, sulla riforma di un sistema previdenziale che guardi ai giovani ed eviti possibili scontri intergenerazionali, sul nucleare troppo frettolosamente archiviato. In questo anno di opposizione abbiamo tentato di essere conseguenti. Abbiamo trattato il tema delle liberalizzazioni, delle pensioni stesse, dei servizi pubblici locali con serietà e con quella «radicalità» che giustamente l’editorialista della Stampa reclama.
Essere moderati non significa essere banderuole esposte ai quattro venti. Avere radicamento territoriale non significa essere clientelari. Essere parte della tradizione cattolica del nostro Paese non è motivo di disonore. Coniugare questi caratteri con le battaglie del libero mercato, di uno Stato più leggero, ma anche più equo, non è facilissimo. Ma non è impossibile. In questi anni abbiamo fatto tanta strada: commesso anche errori, ma da quelli abbiamo saputo trarne le giuste lezioni. La strada da percorrere è ancora tanta. E le difficoltà sono proprio quelle evidenziate da Ricolfi. Chi ha a cuore la sorte del proprio Paese non può sottrarsi a questa sfida. Per l’Udc la battaglia dei prossimi mesi non sarà quella di rifondare un improbabile partito che contrapponga la definizione «centro» alle prevalenti «destra» o «sinistra», poiché siamo consci che ormai questi schemi sono logori e vecchi, figli di stagioni ideologiche che giustamente nella vicina Francia il presidente Sarkozy ha archiviato rompendo tabù e incomunicabilità, facendo un governo della modernizzazione contro tutti i conservatorismi. La sfida è questa: essere, insieme, moderati e radicali si può.